Il ghiacciaio dei Forni

Il sentiero glacialogico alto e piccola deviazione alla ricerca delle trincee della grande guerra.
Alta Valtellina, Vafurva, la valle dei Forni, e il ghiacciaio. E' il regno della montagna, tra grandi valli, montagne scure, massiccie, alte, e lui, il ghiacciaio, che per quanto ai minimi storici rimane il cuore di questo pezzo di parco dello Stelvio. Impressionanti i fronti del ghiacciaio e i torrenti di scolo, indimenticabili scorci.


Abbiamo capito subito che da queste parti tutti i giorni si deve fare i conti col meteo e con la possibilità di utilizzare gli spostamenti in jeep per accorciare almeno i lunghi trasferimenti in andata. Due erano le mete cui non potevamo rinunciare in questa settimana, la prima era raggiungere il rifugio Casati a 3269m per buttare almeno un occhio sulla vedretta del Cevedale e la seconda andare a curiosare, sfiorare se possibile, il ghiacciaio dei Forni. In entrambi i casi c’è la possibilità di raggiungere rifugi intermedi serviti da un servizio taxi in jeep, cosa che permette di annullare parzialmente il tragitto di andata e avere così più tempo a disposizione. Il meteo oggi non prometteva nulla di buono nel pomeriggio, per giunta il servizio navetta era disponibile solo per il rifugio Branca 2469m, riferimento di partenza della nostra seconda opzione e quasi mille metri più basso del Casati, in sostanza la sorte ha deciso per noi la meta. Appuntamento alle 8 al parcheggio presso il Rifugio dei Forni, il tempo di caricare una seconda coppia e per una sterrata, in alcuni tratti ripida, sconnessa, stretta e sul filo di profondi dirupi raggiungiamo il rifugio Branca in una mezz’oretta; l’autista farà questo percorso più volte a settimana, in ogni caso i complimenti sono dovuti, a noi è bastato guardare largo e alto, il ghiacciaio dei Forni lo avevamo sempre alla nostra destra ed è stato facile distrarsi dalle insidie del pendio sottostante. La posizione del rifugio è invidiabile, un balcone sui ghiacci, ma la giornata davanti era lunga e valeva la pena cogliere altre opportunità che la zona concedeva, ci siamo concessi una piccola digressione dal nostro obiettivo principale per cercare le trincee della guerra sulle elevazioni che si alzavano dietro il rifugio e sulla valle di Rosole. Imbocchiamo il sentiero che si stacca davanti al rifugio e traversa in piano verso la malga dei Forni da dove di gode di una magnifica vista sull’intera valle fino al rifugio e anche più giù; è impensabile che solo poco più di cento anni fa la lingua del ghiacciaio arrivasse in corrispondenza del rifugio quattro chilometri più giù. Per circa mezzo chilometro traversiamo su un bel sentiero che se continuato e dopo malga dei Forni raggiungerebbe il rifugio Pizzini; quasi subito e in corrispondenza di un ampio canale erboso, sulla destra, una palina indica la deviazione, si stacca una traccia che con ampi traversi e frequenti tornanti prende a salirlo repentinamente, i tornanti attenuano il ripido salto, i traversi che danno verso Sud sono cartoline sul ghiacciaio, superiamo i duecento metri fino alla cresta senza che ce ne accorgiamo. Atterriamo sulla modesta crestina (+50 min.), quelle che ad un primo sguardo ci sembrano formazioni rocciose sono invece gli scavi delle antiche trincee di guerra, ormai ridotte a ruderi testimoniano della sofferenza che possono aver patito i militari che erano a guardia di questi fazzoletti di terra di confine; oggi le vediamo come reperti storici, posizione davvero strategica per quanto riguarda i panorami, la valle dei Forni, quella di Rosole che sale fin sotto il monte Pasquale ormai in prossimità dl Cevedale, il ghiacciaio dei Forni, punta San Matteo che troneggia al centro, il Palon De la Mare è di fronte, imponente non si riesce a vederne la cima ma solo una piccola porzione della vedretta che pende quasi nel vuoto in un canale laterale… tutto questo avevamo intorno, oggi, giornata splendidamente estiva ma i militari di allora non erano turisti in cerca di avventure e di questi panorami sicuramente ne avevano fin troppo. Mi arrivano veloci tante domande, come facevano a sopportare gli inverni? Ma soprattutto, chi poteva scendere da quei versanti costantemente sopra i 3000m un tempo davvero regno delle nevi eterne? Siamo confusi ed emozionati, in bilico tra il solito ricordo rispettoso per chi si è sacrificato su queste linee di guerra e le potenti immagini che le montagne intorno ci restituiscono. La dorsale continua in leggera salita, per la maggior parte formata da trincee, il sentiero scorre accanto e dove la dorsale si perde sulla valletta erbosa sottostante vira, torna indietro e riprende a scorrere su una seconda piccola dorsale, parallela alla prima e che aggetta direttamente sulla sassosa valle di Rosole. In discesa sul filo di cresta, Marina che mi precede sembra sospesa nel niente, il ghiacciaio dei Forni davanti fa da sfondo, immagine bella e forte. Atterriamo su praterie verdissime e da lì a poco sui tetti del rifugio Branca (+1ora), fine del percorso storico inizia ora quello per cui siamo quassù, il sentiero glacialogico che ci porterà a sfiorare la bocca del ghiacciaio. Alle spalle del rifugio parte il sentiero 520, supera subito con un ponticello il torrente Rosole che qui compie un salto e si frantuma in una nuvola di schizzi, si scende su vicino lago Rosole dove il sentiero si divide tra percorso alto e percorso basso, nella letteratura della zona anche detti glacialogico alto e glacialogico basso; il primo sfiora la bocca del ghiacciaio e con una piccola deviazione la raggiunge, il secondo scorre a valle e segue grosso modo il percorso del torrente. Tralasciamo una piccola traccia che sale su una sottile dorsale a puntare le rocce e i nevai sovrastanti, affascinante ma non fa per noi, e quella più marcata che scende, ci manteniamo sul sentiero che traversa in quota che si dirige verso le scure e lisce formazioni rocciose che si vedono davanti a meno di un chilometro, sulla carta prendono stranamente il nome di guglie, non c’è ombra di rocce appuntita. Un breve canale di grossi sfasciumi si fa salire docilmente, nel mezzo filtra acqua ma è stabilissimo, supera il fronte roccioso e si inoltra poi in alcuni scivoli naturali dove è evidente l’azione dei ghiacci dei tempi passati. Stiamo per scavvallare ed entrare nella piana che anticipa il ghiacciaio, si percepisce chiaramente il suo freddo respiro, per superare il torrente che nasce dallo scioglimento delle nevi e dei ghiacci si deve superare un ponte tibetano di una quindicina di metri, sorvola di poco il torrente che ha appena iniziato la sua corsa verso valle ruggendo nel suo improvviso impeto. Oltre il ponte basta risalire la valle di pochi metri e la foga della corsa dell’acqua verso valle si placa, lascia il posto ad una fiumana larga e lenta, grigia per via dei detriti che sta rubando alla montagna, sulla destra come se fossimo sul ciglio di un larghissimo fosso la risaliamo fin quasi alla bocca del ghiacciaio, la temperatura si abbassa ad ogni passo e come giustamente diceva Marina ci siamo sentiti di troppo, quasi intrusi in un regno che non ci appartiene; nonostante sia notorio che il ghiacciaio non se la stia passando propriamente bene e che sia ai suoi minimi storici l’ambiente è maestoso, e unico. Non riusciamo a raggiungere la bocca del ghiacciaio o almeno quella che è la lingua di ghiaccio che si incunea più a valle, non si riesce a guadare la cospicua gittata che esce dalle nevi eterne (quasi eterne ormai) senza bagnarsi per bene e ci accontentiamo di essere arrivati a sfiorala (+1 ora). Vuoti da ogni pensiero ci guardiamo attorno in silenzio, sulla sinistra, molto alto e con un fronte difficile da giudicare ma almeno di cento metri quella che sembra la vedretta più integra, scende dal Palon De La Mare e si ferma prima di un salto roccioso, ripensiamo alla tragedia della Marmolada, c’è una dorsale rocciosa tra noi ed il fronte ma la sola idea ci scuote e ci impone, anche se con lentezza, di rimetterci a debita distanza. Un mondo a parte, uno scrigno dentro la montagna, e noi al cospetto minuscoli, indimenticabile. Ritorniamo indietro per altre tracce, su sfasciumi e rocce levigate che raccontano le glorie di questo ghiacciaio o forse e meglio, la sua lenta agonia. Lingue di ghiaccio scendono dovunque, ognuna da origine ad un piccolo o grande torrente che scivola sulla roccia, in qualche caso ci sparisce dentro e tutti raggiungono la fiumana sottostante che precipita poi con violenza a valle; un gigantesco equilibrio che si va disgregando, una potenza della natura che sta lottando per la sopravvivenza e che manifesta ancora più potenza nel suo disfacimento. Vicino al ponte tibetano che supera lo sbocco del torrente a valle ce ne è un secondo, breve, supera un secco alveo di un torrente che sicuramente ha visto momenti migliori. Il sentiero inizia quasi subito a salire sul versante opposto da quello che siamo venuti, si infila tra delle rocce giallo-brunite striate e levigate, poco prima di inoltrarsi nelle sinuosità colorate di questo pezzo di montagna, nel punto esatto dove pochi passi più avanti il ghiacciaio sparisce alla vista, su una specie di terrazzo naturale sono stati eretti qualche centinaio di piccoli ometti, le pietre non mancano, tutte levigate e colorate, dal giallo al ruggine; una sorta di “stanza delle candele”, come fossero spanciate stalagmiti. Fanno si che il luogo diventi particolarmente suggestivo ed evocativo, e mi ci sono fermato, la contemplazione veniva da sé, l’emozione che regalava subito dopo. Dopo un momento di catarsi e approfittando di essere rimasto solo ho provato a rubare qualche immagine consapevole che nessuna foto mi renderà mai il momento; il ricordo invece sì. Momenti di entusiasmo continuano dopo aver risalito un ripido canalino, il sentiero si snoda all’interno di un dedalo di roccioni levigati e dalle mille striature, dai colori vividi e accattivanti, spero che anche in questo caso che le foto che ho fatto mi restituiscano almeno un vivido ricordo. Superato una sorta di dosso e di passo di questo pezzo di montagna che prende il nome di Isola Persa, uno spanciato sperone isolato dalla montagna madre, il sentiero prende a scendere velocemente fino ad incontrare un ponticello che supera un “turbolento” torrente di scolo che proviene dalle vedrette sotto la Cima di San Giacomo; scende dall’alto e come sempre in un letto di sfasciumi, ma all’altezza del ponte si incanala in una forra che forse non raggiunge il metro di larghezza in qualche punto; onde che si accavallano ed un ruggito che fa quasi paura ne sono i risultati. Catalizzanti però. Il sentiero viaggia a mezza costa, alti sulla valle, di fronte dalla parte opposta c’è in bella posizione il rifugio Branca, è evidente il perché del nome dei sentieri glacialogici alto e basso, il secondo fila laggiù in fondo, accanto al torrente; bellissima la vista sul Confinale, e su tutta la valle Cedec fino al rifugio Pizzini, imponente la piramide di Dolomia del Gran Zebru, compatta, esaltata dalla sua purezza luminosa rispetto alle scure montagne intorno. Tra vari Sali e scendi ci si mantiene alti e trasversali, fino ai ruderi di una caserma della grande guerra, muri in pietra a secco crollati, stanze ancora intuibili, costruita su più livelli, parzialmente nella roccia, una piccola città di guardia sul versante opposto a quello che avevo visitato la mattina, ma possibile che c’era così tanto bisogno di presidiare questi angoli così remoti e impervi? Dopo il rudere della caserma il sentiero sempre ben marcato inizia a scendere repentinamente, qualche tornante, vari attraversamenti a raso di piccoli ruscelli che al contrario dei precedenti scendono chiari e placidi e intanto anche se basso si intravede il punto di rientro del rifugio dei Forni. L’ultimo tratto si immerge nel bosco e attraversa un tratto di ampie cenge ma molto esposte, il bosco non lo fa vedere ma il versante anche se per un tratto di poche centinaia di metri è verticale. In basso, quando si è quasi alla fine si converge su glacialogico basso, non rimane che attraversare il ponte sul torrente e si è al parcheggio dove abbiamo l’auto (+2,30 ore). Per ora una moderata stanchezza, dovuta forse all’infinita discesa, vince su tutto, più tardi cominceremo a realizzare di aver vissuto posti come poche volte ci capita. Due giorni solo e ci siamo appassionati a questa zona, chissà cosa ci riserveranno i prossimi.